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Le University press: il libro universitario tra mercato e impresa

Martedì 6 novembre alle 10 (aula magna, Palazzo centrale), conversazione con il presidente di Firenze University Press

Martedì 6 novembre alle 10, nell'aula magna del Palazzo centrale dell'Università, si apre l'incontro Le University press: il libro universitario tra mercato e impresa, conversazione con il presidente di Firenze University Press e preside della facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Firenze Giovanni Mari.

Sin dal 2000 infatti è operativo all'Università di Firenze il progetto per lo sviluppo di un’iniziativa di editoria accademica in digitale. Dal successo di questa sperimentazione nasce, nel 2003, Firenze University Press (FUP), che nel 2004 si trasforma in Centro Editoriale di Ateneo, rafforzando il suo ruolo di Casa Editrice dell’Università di Firenze.
Aperta all’innovazione e alla sperimentazione, Firenze University Press si propone come modello di Casa editrice universitaria; collabora attivamente con docenti e ricercatori per valorizzare e diffondere la produzione scientifica e didattica; offre pubblicazioni in versione elettronica e cartacea scientificamente garantite e arricchite dal marchio dell’Università di Firenze.

L'incontro con il presidente Fup vuole pertanto rilanciare anche a Catania il progetto di una university press scientifica etnea. Al dibattito, che sarà coordinato dal prorettore dell'Università di Catania Antonio Pioletti, partecipano gli editori Mauro Bonanno e Umberto Coscarelli, il docente della facoltà di Scienze della formazione Franco Coniglione e il presidente della Tipografia universitaria Lucio Maggio.

 


 

Il libro universitario tra mercato e impresa*

di Antonino Recupero

Il sistema editoriale italiano, tra le tante peculiarità che lo distinguono nel quadro internazionale, presenta anche questo paradosso: l’autore di libri scientifici (a maggior ragione nei settori umanistici) raramente può sperare di riscuotere diritti d’autore per la propria opera, e anzi – nella maggior parte dei casi – è costretto a sostenere in tutto o in parte le spese di stampa, se vuol vederla pubblicata. Fanno eccezione, s’intende, alcune grandi firme: ma in questo caso si tratta in genere di autori i cui libri non si collocano in uno specifico ambito disciplinare, ma anche nella “varia”: libri cioè che a giudizio dell’editore si offrono a un settore di mercato piuttosto ampio. Così – solo per fare un esempio – alcuni testi di Carlo M. Cipolla hanno ottenuto un successo di pubblico che sarebbe certamente mancato se l’editore li avesse lavorati e diffusi come libri riservati al settore di “storia economica”. Le scelte degli editori sono determinanti: se nel caso di Cipolla, e di pochi altri, la qualità della scrittura e la fama dell’autore contribuiscono al successo del libro, resta il fatto che la maggioranza della produzione scientifica in Italia vede la luce in edizioni sostenute finanziariamente dagli stessi ricercatori o dalle istituzioni di ricerca.
Le ragioni – ben note a tutti gli universitari – sono intuitive: il mercato di un testo di ricerca è fondamentalmente limitato, specialmente nel caso di opere prime, di elaborazioni di tesi di dottorato, di ricerche su temi nuovi o molto parziali, e anche nel caso di lavori molto voluminosi e complessi. Il finanziamento della pubblicazione deve quindi venire dall’esterno, nella speranza che la diffusione dell’opera conduca a successive edizioni che siano assorbite dal mercato.
Altrettanto note e intuitive sono le conseguenze: gli autori affidano i loro saggi all’editore che hanno più vicino, o che si mostra disponibile. Fiorisce così una serie di editori locali esclusi programmaticamente dal circuito nazionale di distribuzione. Solo un velo pudico distingue i libri stampati da tali editori da quelli pubblicati in proprio. Il grosso delle copie finisce spesso col restare nei cassetti dell’autore. E ricordiamo che il mercato di lingua italiana, già ristretto di per sé, è oggi diventato un angusto backwater, del tutto tagliato fuori dal circuito scientifico internazionale.
Si è spesso sostenuto che questa situazione è dovuta al mancato impianto nel nostro paese di un sistema di University Press affine a quello anglo-americano. Questo non è del tutto vero, perché tra gli anni Sessanta e oggi diverse aziende editoriali sono entrate in competizione per assicurarsi il ruolo di editori universitari che in alcuni casi hanno ormai raggiunto per unanime consenso. La situazione che si è andata creando e che vige tuttora è piuttosto quella di un inefficiente meticciato tra impresa privata e impresa universitaria. Vediamone alcuni aspetti.

Il ruolo di una University Press si definisce in sostanza secondo il modello originariamente fissato a Oxford dopo il 1660: si tratta di un’azienda il cui capitale è composto o comunque garantito dalle imponenti risorse dell’università, e che quindi è in grado di affrontare investimenti cospicui che non hanno un ritorno immediato. Nel frattempo, la University Press garantisce l’ortodossia religiosa e filosofica dei testi, e cura l’approvvigionamento dei materiali didattici necessari. Così, già alla fine dei Seicento, a Oxford erano stati realizzati i costosi punzoni necessari alla fusione dei caratteri greci, ebraici, siriaci, gaelici e di altre lingue rare, punzoni che in qualche caso andarono in pensione solo alla fine dell’Ottocento, con l’avvento della linotype. La funzione del marchio, col tempo, si trasformò da garanzia di ortodossia in segno di qualità. Lo stesso accadde con la più antica delle stamperie americane, quella di Harvard, e poi a Cambridge e via via in molte delle maggiori università anche europee.
Il ruolo dell’editoria privata, s’intende, non è mai venuto meno, di fianco a quella universitaria: si pensi al caso francese delle Presses Universitaires de France e di tante altre edizioni la cui qualità scientifica viene garantita non dall’università come istituzione ma dal prestigio dei singoli direttori di collana. In Italia il più illustre paragone è dato forse dal lungo sodalizio tra Benedetto Croce e Laterza.
Quel che è accaduto in Italia più di recente indica come il nostro sistema d’impresa editoriale si sia adattato a quei grandi modelli, ma sostanzialmente solo sul versante dei costi. Chi scrive trova scandaloso che i principali editori universitari (sarebbe forse meglio chiarire cosa s’intende esattamente per “editori universitari”) nel nostro paese (non facciamo nomi, che ognuno potrà intuire) abbiano finito con l’imporre un sistema che ormai funziona quasi automaticamente: dopo una sommaria supervisione del direttore di collana, l’autore è chiamato a sborsare (in proprio o tramite l’istituzione) una somma che copre, oltre alle spese vive di stampa, buona parte dei costi aziendali generali. La casa editrice, in sostanza, è completamente coperta fin dall’inizio sul versante del rischio, e ogni singola copia venduta rappresenta un lucro netto. Non si pagano diritti d’autore se non dopo la millesima copia venduta; ma non si arriverà mai a venderla perché la distribuzione sul mercato non esiste se non in modo puramente virtuale. Rarissimo è poi il caso in cui un sospettoso autore chieda la certificazione ufficiale del numero di copie stampate, che di solito risulta inferiore al convenuto.
Il libro così stampato è anche un libro sepolto.
Ancora più scandaloso è il fatto che editori prestigiosi (anche qui non è bello fare nomi), i quali garantiscono una soddisfacente presenza distributiva e pubblicitaria, si siano adeguati al sistema: solo che il prezzo che l’autore è chiamato a sborsare, dopo aver superato controlli di qualità molto più rigidi e anche accademici, risulta di tre e quattro volte superiore.

In Italia l’editoria privata si è ingegnata ad assolvere ai compiti delle University Presses, ma solo sul versante della raccolta dei finanziamenti. Non ha invece assolto ai compiti di conquista capillare e sistematica di fette di mercato internazionale, né ha assolto ai compiti di affrontare la distribuzione del prodotto. Ha badato, cioè, solo ai propri bilanci e mai agli autori e men che meno alle esigenze della cultura (bisogna segnalare alcune eccezioni, come le numerose cooperative nate dopo il 1968 e raccolte nell’Accu, Associazione delle cooperative culturali universitarie). La frammentazione editoriale in provincia ha aggravato il problema, chiudendo i libri prodotti entro confini regionali se non cittadini; anche se occorre riconoscere il ruolo insostituibile delle piccole editrici, che ancor oggi sono le sole a tener vivo l’humus culturale diffuso.

E l’università? È del tutto innocente? Si direbbe di no, visto il silenzio con cui sono state accolte in passato le numerose proposte di sviluppare “editrici universitarie.” Ben prima dell’èra dell’autonomia universitaria il problema è stato risolto in modo autonomo da ogni singolo ateneo, ognuno dei quali aveva (e continua ad avere) collane e periodici stampati in proprio, spesso colpevolmente assassinati (cioè confinati nei magazzini e distribuiti solo in via di omaggio o di scambio). In parole povere, presso i singoli atenei sono prevalsi i poteri locali e le posizioni di privilegio di questo o quel luminare direttore di collana o di rivista: personalità indubbiamente alte dal punto di vista scientifico, ma del tutto disinteressate o incompetenti a porre il problema della distribuzione e del mercato.
Ha senso impostare adesso, nel nuovo millennio, un sistema di University Press? Le numerose innovazioni tecniche in atto suggerirebbero di no. La stampa digitale rende oggi economico stampare poche copie di un libro (print on demand). Il CDRom e più ancora la pubblicazione in rete risolvono i problemi economici posti dai grossi volumi e da interi archivi. La rete, soprattutto, permette di impostare in modo nuovo la questione della pubblicità di un testo, cioè della sua diffusione; e impone quasi automaticamente l’impiego della lingua inglese. Il panorama va rapidamente mutando, dice Giovanni Peresson dell’Associazione italiana editori, tra i massimi esperti del libro e della sua diffusione in Italia: si possono ora coprire a basso costo i settori di mercato che richiedono un libro a diffusione puntuale (cioè gruppi di lettori limitati di numero e concentrati per area o professione). Peresson continua: «Ciò modifica anche la natura del libro universitario, che potrà essere scomposto o ricomposto secondo specifiche necessità locali».

Eppure… resta ancora una funzione essenziale delle University Presses, cioè la garanzia di qualità. È lecito sognare? Quei (pochi) atenei italiani che riterranno utile tentare di fondarne una adesso, con piena adesione alle attuali tecnologie e con moderno spirito d’impresa, svincolandosi dai giochi di potere personali e locali, e puntando al mercato globale, avranno successo. L’obiettivo principale è l’eccellenza nella qualità del prodotto editoriale e la flessibilità dei supporti nei quali esso si versa, dalla carta stampata al digitale, al televisivo. Tutti gli atenei, o quasi, hanno già in proprio tecnici, tecnologie e strumentazione, per non parlare della disponibilità finanziaria che, come si sa, resta bassa fin quando il mercato è nuovo, ma diventa altissima una volta che il mercato sia già occupato da imprese che hanno riscosso i primi successi. Chi arriverà per primo?

* tratto da "Bollettino d'Ateneo" 2002, n.1-2

(06 novembre 2007)


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